Il dovere di salvare le coste

IL DOVERE DI SALVARE LE COSTE
di Mario Tozzi, La Stampa 11 agosto 2014

I recenti dati sullo stato delle coste italiane sono terribili. Probabilmente nessun Paese, con uno sviluppo costiero così cospicuo (quasi 8000 km), ha maltrattato e distrutto il fulcro del suo patrimonio turistico.

E lo ha fatto con una perseveranza che non trova riscontro neppure in Grecia o in Spagna, e che non si ferma nemmeno davanti ai ripetuti allarmi per l’eccessivo consumo di suolo lanciati negli ultimi anni. In Italia l’occupazione delle coste è al 60% contro una media mediterranea del 40%, ma raggiunge vette dell’85% nel Lazio; in Liguria solo 19 km di coste su 135 sono liberi dal cemento, in Emilia Romagna 24 su 104. Il tutto aggravato da una feroce erosione delle coste che le ha ridotte del 40% negli ultimi decenni; erosione che trova la sua ragione nella moltitudine di dighe e cave lungo il corso dei fiumi che così non possono ripascere le spiagge.

Con le spiagge ce la siamo presa particolarmente: su circa 3500 km, quasi 1000 sono occupati dagli stabilimenti ufficiali, poi bisogna aggiungere campeggi, villaggi turistici, infrastrutture varie e le opere residenziali (molte abusive), arrivando a circa una buona metà del demanio marittimo occupato per usi privati. Solo il 29% delle coste italiane (circa 2200 ettari) è libero da insediamenti e integro. Quasi il 60% è invece stato già fatto oggetto di occupazione intensiva che ha comunque sempre comportato almeno la cancellazione della duna e della macchia. Come se non bastasse, il restante 11% è in via di occupazione.

Una volta la grande bellezza italica era anche il mare, ma negli ultimi 25 anni le nostre coste si sono sostanzialmente trasformate in aree urbane. Se aggiungiamo che siamo il paese più caro del Mediterraneo, per quale ragione i turisti stranieri dovrebbero venire, e soprattutto tornare, al mare da noi? E’ vero, il patrimonio artistico, storico e monumentale dell’ex Belpaese è ancora attraente, ma è sommerso dalla grande bruttezza di periferie inguardabili o assediato da costruzioni moderne nemmeno completate. Il valore di contesto, quello che rendeva unico un paese in cui, passeggiando in riva al mare, trovavi il teatro greco o il porto romano, le tagliate etrusche e i villaggi padani, è sfregiato orribilmente. Soprattutto è l’ambiente a essere stato impoverito e distrutto, così la qualità dei soggiorni, soprattutto dei turisti nord-europei è scaduta e ci lasciano a favore delle mete tradizionali (Grecia, Croazia e Spagna) o di quelle nuove (Cina e Sudest asiatico). Perché dovrebbero cercare una natura che non esiste più in Calabria o in Sicilia quando in Thailandia o Indonesia è ancora in gran parte intatta, costa molto meno e viene offerta con una ospitalità che noi abbiamo dimenticato? Forse fra dieci anni anche questi luoghi saranno ricoperti di costruzioni, ma questo è il nodo cruciale del turismo mondiale, la legge non scritta per cui, quando l’infrastrutturazione supera un certo limite, allora il godimento si abbassa in maniera intollerabile e arrivano le infiltrazioni malavitose. E la costa perduta è perduta per sempre.

Se vogliamo conservare e potenziare il motore economico del nostro sistema turistico estivo, abbiamo davanti una strada obbligata, che serve anche a tutelare natura e ricchezza della vita. Portare a 1000 metri dal mare il divieto di costruire (oggi è di 300) e applicare una moratoria di almeno cinque anni alle nuove costruzioni. Le coste sono i nostri gioielli di famiglia esattamente come i monumenti, per via di un legame fra cultura e natura che è da noi più stretto che altrove. Il nostro patrimonio non è tanto la somma dei monumenti, ma il contesto: quello che rende(va) unico in tutto il mondo un Paese che dovrebbe ancora porre a perno della propria identità nazionale e della propria memoria collettiva i valori culturali e naturalistici.