Durante il Servizio Civile presso i Mercati di Traiano, nel 2011, insieme ai miei compagni di ventura adattammo in via sperimentale un format, “RadioLivre Incontra“, alla divulgazione scientifica. RadioLivre prevede un’intervista attraverso 10 canzoni, unendo l’elemento emozionale della canzone ad un aspetto illustrato dall’intervistato, normalmente l’autore di un libro. Per il Museo dei Fori Imperiali, invece, pensammo in un primo momento all’imperatore Traiano stesso, in una sorta di pièce teatrale: il punto di vista sarebbe stato però univoco e, adottando una terminologia wiki, “non neutrale”. Optammo quindi per una rappresentazione corale, dove ognuno avrebbe illustrato uno specifico aspetto dell’età traianea partendo da una canzone. Purtroppo non conservo più l’intera scaletta, ed è un peccato dato l’entusiasmo e il divertimento con la quale affrontammo l’organizzazione e lo svolgimento dell’evento. Ho ritrovato soltanto la copia, destinata alla stampa, delle parti che toccarono a me: questo quello che scrissi riguardo ai miei due argomenti, il secondo, “Roma”, e l’ottavo, “Immigrazione e mobilità sociale”.
(II) Roma
Il ritmo ossessivo di questa canzone, incentrato sul simbolo che più incarna l’Urbe Eterna nell’immaginario collettivo, ben si adatta al ritmo frenetico della vita della Roma imperiale, vero e proprio carnaio di speranze e desideri, uomini e idee, in un mix centripeto che tutto attira e tutto frulla in continuazione. Roma, città immensa, che arrivò a sfiorare il milione di abitanti (volendo fare un paragone, ora dovrebbe contare tra i 7 ed i 9 milioni di abitanti), mondo nel mondo, costellata di marmo luminoso e macchiata dai più nefandi difetti, Roma lupa, combattente e prostituta, valorosa e codarda, splendida e puzzolente. L’ha fondata un dio che non disdegnò di fare il pastore, l’ha portata al massimo della sua estensione un uomo che, amante delle armi, non dimenticò la pace. Roma risplendeva su tutto il Mediterraneo e l’Oriente e nulla poteva temere, se non i Romani stessi.
In questa immensa bolgia umana, tantissimi erano i problemi, assai simili a quelli di una moderna necropoli, primo tra tutti il traffico. La vita del cittadino romano, infatti, si svolgeva all’esterno della propria abitazione, tra terme, foro, botteghe, ginnasi, attività varie, per cui le strade erano sempre pullulanti di vita. Si aggiunga il movimento di carri e mezzi atti a rifornire e trasportare tutto quanto fosse necessario al normale svolgimento delle attività quotidiane, al quale Cesare aveva cercato di porre rimedio vietando il traffico privato nelle ore diurne (quasi una ZTL) e si capirà come mai nelle fonti antiche c’è un continuo lamentarsi dell’impressionante rumore che regnava nella città. I silenziosi ruderi che oggi possiamo ammirare in tutta il loro romantico isolamento erano invece calati in un tumulto di suoni, di odori misti tra profumi di cibo cucinato nelle cauponae, le osterie, e di puzzo risalente dalle strette vie, di colori, tra intonaci, manifesti elettorali, dipinti murali, mercanzie esposte. Negozianti che decantano la qualità delle loro merci, osti che offrono ristoro e la possibilità di portarsi a letto le cameriere, al piano superiore delle loro bettole (e ci sono giunti i commenti entusiasti o gelosi dei vari clienti), vicini che urlano dalle finestre delle loro insulae, magari dal settimo piano di questi palazzi altissimi. E che dire del Tevere? Oggi lo vediamo scorrere tranquillamente per Roma, quasi dimenticato da chi quotidianamente con l’auto percorre i lungotevere per recarsi al lavoro, quasi un fastidioso ostacolo… Se per incanto potessimo tornare al periodo imperiale, lo vedremmo solcato continuamente da navi di ogni stazza, in manovre di attracco lungo le innumerevoli banchine che costellavano le rive del fiume, in procinto di scaricare una quantità di merci che ha dell’incredibile: 260.000 tonnellate di grano all’anno, 1.450.000 – 1.800.000 ettolitri di vino, e sono cifre in difetto… e poi spezie, carni, verdure, vesti, ogni ben di Giove, con frotte di servi e lavoratori pronti a scaricare in un baleno un’imbarcazione per consentirle di tornare ad Ostia, compiere un nuovo carico, e ritornare nell’Urbe, sempre affamata, sempre bisognosa. Con i frammenti delle anfore olearie che non potevano più essere riutilizzate, è stato creato perfino un monte, il Testaccio, tanto numerose erano…
La forza di attrazione che l’Urbe esercitava enorme: l’enorme afflusso di gente che ogni anno si stabiliva a Roma, tra italici e provinciali, alzava notevolmente la richiesta di alloggi. Come oggi la speculazione era all’ordine del giorno: edifici altissimi tirati su in brevissimo tempo, materiali scadenti, servizi assenti… Crolli ed incendi erano sciagure praticamente quotidiane. Perfino un severo critico come Tacito dovette riconoscere la bontà dei provvedimenti presi in seguito al terribile incendio del 64 d.C. dal tirannico Nerone – di abbassare l’altezza massima degli edifici, di allargare le vie e dotarli di portici, di impedire la costruzione di pareti in comune tra caseggiati, al fine di creare barriere tagliafuoco. Roma è fondata su travicelle, diceva Giovenale. Il corpo di polizia urbana svolgeva il duplice compito di controllare gli incendi e di garantire la sicurezza notturna, altro grande problema di una metropoli così affollata. Potresti passare per negligente […] se vai fuori a cena senza aver fatto testamento!, afferma sempre Giovenale. Ci si spostava il meno possibile, con massiccia scorta chi se lo poteva permettere, ma ciononostante stupri e violenze erano assai frequenti, come le fonti riecheggiano. Roma era dunque bifronte, come Giano, il padre del Tevere: era quell’Omnia Romae Cum pretio (A Roma, tutto si può avere a un prezzo) che declamava Giovenale, ma anche quella Quid melius Roma? (Che cosa, migliore di Roma?), che un Ovidio, ormai esiliato sulle lontane coste del Mar Nero, con nostalgia annotava nelle sue pagine mesti.
(VIII) Immigrazione e mobilità sociale
È un grido di battaglia famosissimo, quello di questa canzone, dal titolo che già di per sé è un programma. È un grido che esalta, e nel contempo terrorizza, è il grido del nuovo che avanza e che travolge ciò che, stabile, non può più innovarsi, fossilizzandosi. È il grido che, se usiamo un po’ di immaginazione, possiamo sentire nelle fasi finali dell’Impero Romano, quando, da tempo ormai ripiegato su sé stesso, subisce l’immane pressione dei Barbari che da ogni parte premono per entrare, sradicando quanto incontrano sul loro cammino… Ma noi siamo, con Traiano, nel momento della massima espansione dell’Impero, sono i Romani, in questo periodo, ad essere l’elemento in costante evoluzione e dunque sommovimento: abbiamo prima visto come Roma fosse una fucina incredibile di attività, motore incandescente di un movimento dalla prorompente forza centrifuga. Qual era il segreto di questo dinamismo inarrestabile? Era incredibile come un popolo di pastori, che non rinnegava affatto le sue origini ed anzi ne andava orgoglioso, avesse piegato al proprio dominio l’intero mondo conosciuto: i Romani non erano Alessandro Magno, eppure avevano ridotto il Mare Mediterraneo ad un lago privato. Mare Nostrum, lo chiamavano. Secoli prima di Traiano, uno storico greco, Polibio, aveva tentato di dare una spiegazione al mistero. Era Polibio personaggio in vista che venne inviato a Roma in ostaggio dopo la battaglia di Pidna del 168 a.C., nella quale il console Lucio Emilio Paolo distrusse le velleità del regno di Macedonia di sottrarsi al dominio romano. Nell’Urbe rimase per diciassette anni, avendo modo di entrare profondamente in contatto con la realtà romana, rimanendone affascinato. Non si capacita di come, nel giro di appena cinquant’anni, Roma sia diventata dominatrice incontrastata del mondo, lo dice esplicitamente nelle sue Storie. Si arrovella, analizza, e finalmente trova una soluzione: è la sua particolare costituzione, non unica, ma mista. Polibio infatti riconosce come forme di governo la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia, e le loro controparti negative, la tirannia, l’oligarchia, e l’oclocrazia. Tali forme si avvicendano normalmente in un processo chiamato anaciclosi, che inizia con la monarchia e finisce con l’oclocrazia. La Repubblica romana, invece, costituisce per lo storico una miscela delle tre forme positive di governo: i consoli rappresentano la monarchia, comandano l’esercito e governano le spese di Roma; il Senato, aristocratico, è responsabile per la nomina e l’elezione dei consoli e dei censori ed è la forza trainante degli affari che si svolgono in città e in materia di politica estera; ma tutto ciò non può avvenire senza la censura del popolo e nessuno si può insediare in qualunque carica senza il voto del popolo. È in questo modo, per come viene compreso da Polibio, che la forza dello stato romano viene messa in mostra e tenuta coesa. È un modello che sembra sopravvivere all’istaurazione dell’Impero stessa: Augusto, anziché imperatore, preferisce definirsi primus inter pares tra i senatori, ed il potere gli deriva dal poter ricoprire perpetuamente la tribunicia potestas, prima detenuta dai tribuni della plebe, e dall’imperium proconsulare maius, la possibilità di comandare sulle province in quanto proconsole. L’imperatore quindi rappresentava in un certo senso l’incarnazione dei tre poteri.
La tribunicia potestas era stata istituita nel 494 a.C. in seguito alla rivolta dello strato popolare che, stanco delle vessazioni dell’aristocrazia, aveva deciso di mettere in atto una secessione ritirandosi sul Monte Sacro, fortificandolo. A calmare gli animi il Senato inviò Menenio Agrippa, il quale convinse la plebe a desistere dal proprio proposito paragonando l’ordinamento sociale romano al un corpo umano.
Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso, ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute.
Udita la storiella, il popolo si calmò e tornò a Roma, ma non prima di aver ottenuto l’istituzione della figura del tribuno, ulteriormente rinforzata poco dopo dalla possibilità di porre il veto a qualsiasi provvedimento danneggiasse l’interesse della plebe. Il conflitto sociale sembrava così essere giunto ad una soluzione, almeno dal punto di vista istituzionale. In realtà la situazione andò via via peggiorando, fino a culminare nell’uccisione del tribuno Tiberio Gracco nel 133 a.C. in seguito alla contestatissima (da parte aristocratica) legge agraria di redistribuzione dei terreni, eliminando la possibilità di creare vasti possedimenti a favore di un’assegnazione ai ceti meno abbienti. Il fratello Caio riprese la legge, e, tra gli altri provvedimenti, propose qualcosa di ugualmente inaudito, concedere la cittadinanza romana (che godeva di tutti i diritti civili e politici) ai latini, e quella latina (che godeva di benefici minori, ad esempio non era possibile l’accesso alle cariche pubbliche) agli italici. Nel 122 a.C., dato il tumulto che la proposta aveva suscitato, memore della fine del fratello preferì suicidarsi. Morto l’individuo, ma non la causa che ne aveva decretata la fine: l’insoddisfazione del ceto italico, infatti, non tardò a manifestarsi nuovamente, per esplodere drammaticamente in guerra nel 91 a.C. Fu una guerra strana, dal momento che, seppur sconfitti dopo due anni, gli italici ottennero esattamente quello per cui avevano iniziato a combattere: divenire a pieno titolo cittadini romani, cosa più teorica che pratica (dato che, se volevano esercitare il diritto di voto, dovevano recarsi a Roma…), ma almeno ora potevano. Piccola curiosità: le varie popolazioni ribelli, unitesi in lega, coniarono una propria moneta che recava la scritta Italia, nella quale era raffigurato un toro che abbatteva la lupa romana. La prima Italia unita la si ebbe allora.
La capacità di Roma di accogliere nel suo seno le più disparate compagini sociali e culturali, tanto pacificamente quanto in seguito a guerre, era una delle sue caratteristiche più notevoli che la differenziavano sostanzialmente dalle altre società antiche. Fedeli soltanto al mos maiorum, al costume degli antenati, non avevano problemi ad adottare, nel lungo periodo, caratteristiche o elementi culturali stranieri. Di questo i Romani stessi erano consapevoli: quando, nel 40 d.C., l’imperatore Claudio propose di dare ad alcuni Galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Al che l’imperatore rispose:
“A qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi, nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in disparte gli stranieri? Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero, fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si ha il torto di credere: l’antica Roma ne ha dato molti esempi”.
Lì dove ora c’è la Piazza del Campidoglio ed il cavallo di Marc’Aurelio, vi era in antico una piccola valle, chiamata Asylum: qui Romolo accoglieva, dando appunto asilo, chiunque avesse deciso di trovare rifugio nella città che aveva appena fondato, senza alcuna distinzione di ceto o provenienza. Due dei sette re di Roma erano sabini, non romani; e se i Tarquini riflettono una fase di dominazione etrusca, c’è un altro re che invece incarna l’ascesa da umili origini fino all’acme del potere: Servio Tullio. È una figura controversa ed affascinante, ma non possiamo approfondire qui tutte le questioni legate ad essa: ci limiteremo alla constatazione che, come dice lo stesso nome, era di origini servili, figlio di una prigioniera di guerra o di una schiava.
L’integrazione e la mobilità sociale erano quindi costituenti genetiche della compagine romana, e forse vero segreto del suo successo: vi erano gli aristocratici, discendenti delle antiche famiglie patrizie; i plebei, che arricchendosi potevano accedere all’ordine equestre, contrarre matrimonio con aristocratici, accedere ad importanti cariche pubbliche; gli schiavi, che potevano essere liberati dal padrone tramite manomissione oppure comprarsi la libertà, divenendo così liberti, prendendo come cognome quello del suo ex padrone, ed avendo la possibilità di mettere su famiglia ed avere proprietà. I discendenti, alla terza generazione, erano cittadini romani a tutti gli effetti. Se presso gli autori più antichi erano descritti come instrumenta vocali, strumenti dotati di voce, con il passar del tempo gli schiavi vennero visti con considerazione sempre crescente, ed i liberti, in quanto legati dal rapporto di riconoscenza, degni di stima. Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia, spesso connessi al fisco. L’ufficio politico dell’imperatore Claudio era composto ad esempio esclusivamente di schiavi di fiducia. Alcuni di loro diventarono estremamente ricchi: un esempio letterario è il Trimalcione di Petronio, ma se si vuole comprendere visivamente quanto potessero divenire benestanti, allora basterà andare a Porta Maggiore ed ammirare la monumentale tomba del liberto Eurisace. Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell’esercito, Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali, Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell’edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni.
La stessa apertura mentale la si aveva anche nel campo religioso: i culti erano tutti tollerati, ed anzi quelli orientali conobbero a Roma grande successo. Un esempio è il culto di Mitra, diffusissimo tra le legioni romani, e in onore del quale vennero costruiti in città numerosissimi luoghi di culto, i mitrei. Ce n’è uno qui vicino, in Piazza Barberini, un altro al Circo Massimo, un altro sotto San Clemente… Non erano invece ammessi quei culti che potessero turbare l’ordinamento romano: è per questo motivo che, pur essendo straordinariamente simili, il Mitraismo era consentito, ma il Cristianesimo non era invece tollerato. Proprio risalenti all’epoca di Traiano abbiamo due documenti molto importanti in proposito. Il primo è una lettera inviata all’imperatore da Plinio il Giovane, legato nella provincia di Bitinia, che chiede chiarimenti sulla condotta da seguire nel giudicare le accuse contro i cristiani, in quella provincia molto numerosi. Egli considera quella religione nihil aliud quam superstitionem (“null’altro che superstizione”). Il secondo documento è il rescritto, cioè la risposta ufficiale, in cui Traiano detta modalità per trattare la questione cristiana che sarebbero rimaste valide per quasi 140 anni: le denunce anonime andavano respinte, non bisognava effettuare alcuna ricerca attiva dei cristiani, ma, in caso di denuncia, dovevano essere condannati se avessero rifiutato di sacrificare agli dei e al nume dell’imperatore. L’ostinazione con la quale i seguaci di Cristo rifiutavano di venerare Roma e l’Imperatore risultava incomprensibile agli occhi dei Romani, non tanto per fanatismo, ma perché consideravano la religione come instrumentum regni, non come mezzo salvifico. Concludo infatti questo rapidissimo excursus di duemila anni con una citazione di Seneca, filosofo vissuto sotto Nerone, che riteneva vera schiavitù quella che assoggetta gli uomini alle passioni e ai vizi. Tutti noi siamo schiavi spiritualmente e solo la filosofia può rendere liberi, a prescindere dalle differenze sociali.
“Che significa cavaliere, liberto, schiavo. Sono parole nate dall’ingiustizia. Da ogni angolo della terra è lecito slanciarsi verso il cielo”.