“CARI ITALIANI, CON LO 0,2 % LA VOSTRA CULTURA MUORE”
Alain Le Roy, Ambasciatore di Francia in Italia (2012-2014)
“L’Italia non deve disperarsi. È ancora la seconda potenza manifatturiera in Europa, dove ci sono problemi per tutti. Noi francesi per esempio condividiamo con gli italiani il rimpianto per le riforme strutturali non fatte quando sarebbero state meno costose, prima della crisi. La Germania le ha realizzate dieci anni fa quando c’erano più margini di manovra. Adesso anche noi soffriamo. Il governo francese ha dovuto varare un taglio della spesa pubblica di 50 miliardi di euro da qui al 2017″. Alain Le Roy sta per lasciare il principesco ufficio romano di Palazzo Farnese al termine dei tre anni di mandato come ambasciatore della Francia. Con la felpata e diplomatica attenzione che ha dedicato alla crisi economica e politica italiana, una cosa non è riuscito a capire: perché l’Italia, il Paese che ha di gran lunga il più ricco patrimonio artistico al mondo, spende così poco per la cultura.
Lei saprà che l’Italia ha avuto un importante ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che ha teorizzato che “con la cultura non si mangia”?
Ho saputo. Ma non credo che sia questa l’idea prevalente nel vostro Paese. Ho parlato con molti politici di ogni orientamento, e tutti mi hanno dato la stessa risposta: è giusto, ma in questo momento non abbiamo risorse in più da investire sulla cultura.
Siamo davvero così indietro?
L’Italia spende per la cultura lo 0,2 per cento del bilancio dello Stato, la Francia l’I per cento. Cinque volte tanto. È così da sempre. Il livello di investimento francese è questo dai tempi di François Mitterrand, quello italiano è così basso da sempre, responsabilità dei governi di ogni colore politico.
Come si fa a mangiare con la cultura?
In primo luogo sono soldi spesi bene perché servono a educare i giovani. Le faccio un esempio: il museo del Louvre ha aperto recentemente una sezione dedicata all’arte islamica, anche grazie a importanti contributi finanziari di diversi Paesi arabi. Sicuramente questa iniziativa diffonderà in Francia la comprensione della ricchezza culturale di quel mondo. In secondo luogo, la cultura può essere un motore della crescita e oggi in Francia possiamo constatare che l’industria culturale da più posti di lavoro dell’industria dell’auto. Questo avviene grazie alla spesa statale nel settore. Per questo penso che lo scarso livello di spesa dell’Italia, in questo scenario di crisi economica e disoccupazione, si traduca in un’occasione persa, in un tesoro buttato.
Lei parla di industria culturale, ma l’Italia ha il problema di tenere aperti i musei e fermare lo sfacelo di Pompei.
È vero. Non sarà un caso che da noi il ministero, fondato nel 1959 dallo scrittore André Malraux, si chiama “della Cultura”, da voi “dei Beni culturali”. Il bilancio del ministero francese, pari a 7,2 miliardi di euro, è destinato per 2,7 miliardi alla cultura in senso stretto (monumenti, musei…) e per 4,5 miliardi alla lettura, ai media e all’industria culturale. Lo Stato per esempio sostiene molto il cinema, che oggi vanta un primato in Europa. Devo dire che forse in questo settore la Francia è aiutata dalla struttura più centralizzata dello Stato.
Non avete le regioni e avete una radicata tradizione statalista.
Soprattutto c’è l’idea che la politica culturale è un pilastro decisivo dell’azione dello Stato. Pensi al fatto che abbiamo da trent’anni la legge sul prezzo unico del libro, introdotta dal ministro Jack Lang, che vietando sconti superiori al 5 per cento sui libri ha salvato molte piccole librerie nei centri storici. E pensi che il Louvre ha potuto aprire un vero e proprio museo distaccato a Lens, ex cittadina mineraria del nord flagellata dalla disoccupazione giovanile. Gli effetti positivi sull’economia della zona sono stati immediati.
In questi tre anni non ha visto niente di simile?
Sicuramente l’esempio di Torino è importante. La città ha cambiato identità, da capitale industriale è diventata anche un polo di attrazione culturale, molti più turisti francesi hanno cominciato ad andarci. È un fatto locale, dovuto a buoni sindaci come Sergio Chiamparino prima e Piero Fassino adesso.
Chi glielo dice al governo italiano, mentre deve fronteggiare il mantra europeo dell’austerità, di trovare un po’ di miliardi di euro da spendere in musei, restauri e sostegno al cinema?
Capisco che il momento è difficile, e lo è per tutti in Europa. Però noto che in Francia la crisi economica sta colpendo duramente, eppure mai nessuno ha introdotto nel dibattito pubblico l’idea di tagliare i fondi alla cultura.
La soluzione che va per la maggiore in Italia è quella di delegare ai privati manutenzione e sfruttamento economico dei beni culturali.
Non è tra le soluzioni prese in considerazione dal governo francese. Il Louvre, per esempio, nessuno ha mai pensato di privatizzarlo. Accoglie ogni anno circa 10 milioni di visitatori, ma ben il 40 per cento dei suoi ricavi vengono dai privati, sotto forma di contributi e donazioni. Quando il sistema funziona, aziende e fondazioni private sono incoraggiate a intervenire con i loro contributi. Naturalmente questo anche grazie a meccanismi di sconto fiscale, una strada sulla quale il ministro Dario Franceschini lavora nella stessa direzione.
Con tutte queste differenze (spesa alta contro spesa bassa, centralismo contro autonomie locali) la collaborazione tra i due governi risulta complicata?
Le cooperazioni culturali sono fitte e funzionano bene. E devo dire che quando ci sono state da fare importanti battaglie internazionali la Francia ha sempre trovato l’Italia al suo fianco. Insieme abbiamo difeso il progetto Erasmus. E quando abbiamo sostenuto il principio di quella che noi chiamiamo exception culturelle, cioè l’esclusione dei prodotti culturali dal trattato di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, per difendere il mercato interno, i governi Monti prima e Letta poi ci hanno seguito. E abbiamo vinto.
di Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano 8 agosto 2014