In memoria di Fabio Maniscalco

Navigando per l’Internet, mi sono imbattuto in una figura che definire eroica sarebbe un eufemismo: Fabio Maniscalco. Nato a Napoli il primo agosto del 1965, a 28 anni (1993) era già Ispettore Onorario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ma – soprattutto – nel 1996 nel teatro di guerra della Bosnia e di nuovo nel 1997 “ha creato e diretto il team sperimentale di tutela dei beni culturali del contingente multinazionale in Albania, con cui ha realizzato il monitoraggio del patrimonio culturale durante l’operazione di peace-keeping “ALBA” (fonte Wikipedia). Grazie a Maniscalco, arruolato nei ranghi della Brigata Garibaldi, per la prima volta dal 1954 viene quindi applicato l’articolo 7 della Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di conflitti armati. Come se non bastasse, “durante l’attività di monitoraggio si è inoltre infiltrato nel mercato clandestino dell’arte, recuperando numerosi materiali archeologici” (fonte Wikipedia). Tutto il contrario, quindi, di quell’Indiana Jones al quale fu accostato dalla stampa di quegli anni. Si batte contro lo Ius Predae – in pratica, il diritto da parte del vincitore di fare bottino del patrimonio storico-artistico dello sconfitto – e a favore della salvaguardia e della tutela delle testimonianze del passato.


Una testimonianza della distruzione del cinquecentesco ponte di Mostar, avvenuta nel 1993, simbolo fino a quel momento di pacifica convivenza tra culture differenti.

Mentre quindi crescevo al ginnasio, manifestando con i miei coetanei contro l’assurdità della guerra jugoslava, e poi al liceo contro il conflitto albanese e serbo-kosovaro, un archeologo della mia attuale età spendeva tutte le sue energie nella difesa del patrimonio culturale, inteso nella sua accezione più ampia, ossia come appartenente all’Umanità intera. Tranne qualche articolo di giornale a ricordarlo, di Maniscalco non si ricorda quasi più nessuno. Come mai? Eppure, nel 2007, venne addirittura candidato al premio Nobel per la pace – andato poi ad Al Gore e all’IPCC dell’ONU non senza polemiche. Come mai, dicevamo? Perché Maniscalco è morto nel 2008 a causa dell’esposizione delle polveri di uranio impoverito contenuto nei proiettili e nei missili utilizzati nella guerra dei Balcani, polveri che a distanza di anni hanno causato prima il cancro, quindi la morte di decine e decine di militari. Una morte scomoda, la cui eziologia solo in epoca recente sta divenendo di fatto riconosciuta.

Non una damnatio memoriae, ma un silenzio assordante su di una figura di primo piano, realmente in prima linea nella difesa del patrimonio culturale, figura di cui si sente assoluta mancanza dato soprattutto il panorama attuale.

Da ‘Predella‘, n. 35 (il grassetto è mio)

FORMARE, EDUCARE E COOPERARE: L’ATTIVITÀ DI FABIO MANISCALCO E L’OSSERVATORIO PER LA PROTEZIONE DEI BENI CULTURALI IN AREA DI CRISI

Mariarosaria Ruggiero Maniscalco

Fabio Maniscalco è noto soprattutto per il suo impegno nel campo della salvaguardia dei beni culturali nelle aree a rischio e di conflitto [… e] poté sostenere che la distruzione culturale è un’arma di guerra sottovalutata, ma efficace e ampiamente praticata, aprendo fronti di studi inesplorati.

Intese la cancellazione della memoria come cancellazione di una comunità stessa, della sua identità e dignità; interpretò la distruzione del patrimonio culturale di un popolo non come conseguenza di una pulizia etnica, ma come uno dei suoi germi più biechi. Indagò, fece nascere e collazionò studi isolati e spesso ignorati sull’argomento, offrendo una panoramica di ampio respiro, maggiormente intelligibile. Si occupò delle problematiche del patrimonio culturale ad ampio raggio: dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale alla situazione balcanica, dalla distruzione dei resti archeologici di Cipro ai danni ai beni culturali dell’Iraq, della Palestina e della striscia di Gaza, toccando aree martoriate come l’Afghanistan, l’Algeria, il Libano, la Valle di Kathmandu, i templi di Lhasa. […]

Analizzò anche i rischi derivanti dalla spoliazione del patrimonio culturale nazionale e mondiale operata dal mercato clandestino, dalle archeomafie, dai furti e saccheggi connessi a fatti storici di maggiore portata: nelle città italiane, a Napoli in particolar modo, instaurando una fitta collaborazione con il Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri e col generale Roberto Conforti, col quale strinse un rapporto di stimata collaborazione. Per aree più lontane come il Mali e la Nigeria, quest’ultima martoriata dall’alternarsi di colpi di stato e di conflitti interni, ravvisò nell’esportazione illecita di beni culturali una delle principali cause della dispersione del patrimonio archeologico e demo-etno-antropologico. Gli ultimi due volumi della collana monografica da lui ideata e diretta, dedicati alla Palestina e agli interventi a salvaguardia dei beni culturali nelle aree a rischio bellico, presentano una stretta correlazione e sono emblematici dell’idea che Fabio aveva di tutela del patrimonio culturale di un popolo. Si tratta in entrambi i casi delle prime pubblicazioni scientifiche interamente dedicate al tema della tutela e della conservazione nei territori a rischio bellico e in quello palestinese in particolare. Da un lato egli sottolineava la necessità di una approfondita conoscenza delle sopravvivenze storico-culturali, dall’altro era presentata l’idea forte, innovativa, che la tutela debba intendersi come salvaguardia attiva, svolta sul territorio durante le fasi di un conflitto, messa in atto possibilmente dalle stesse parti interessate, addirittura prima del conflitto. Insomma insegnava a predisporre una coscienza della preservazione dal danno derivante dallo stato di emergenza. […]

La sua missione fu costantemente rivolta a scongiurare la damnatio memoriae, in primo luogo attraverso la conoscenza e l’attuazione della Convenzione dell’Aja del 1954. Come egli ricordò in più occasioni, Israele ratificò la Convenzione nel 1957, ma poiché l’Autorità palestinese non aveva l’arbitrio di ratificare gli accordi internazionali la Convenzione era valida solo su determinate aree previste (B e C) dall’accordo di Oslo (1993) e dal Protocollo di Hebron. Israele, dunque, ha attuato a più riprese distruzioni di interi quartieri. Ma anche nelle aree previste dagli accordi è facile immaginare che le disposizioni convenzionali furono e sono puntualmente ignorate o disattese.

Da qui l’idea di apporre il simbolo di protezione dei beni culturali, lo Scudo Blu, sugli edifici storici di Nablus e di Hebron con due finalità: quella per cui nacque istituzionalmente, e cioè segnalare la presenza di un monumento di interesse storico agli eserciti e al personale presente sul territorio durante il conflitto; l’altra, favorire l’agnizione della memoria storica da parte della popolazione e dell’Autorità palestinese. Insomma Fabio metteva di fronte alle responsabilità non solo lo Stato occupante, ma anche le autorità civili e culturali, quali le Università e i centri di ricerca. […]

Fabio era certo che solo l’educazione a sentire come un patrimonio comune l’espressione culturale dell’altro, anche del nemico, è la chiave per proteggere il patrimonio culturale mondiale che soffre di saccheggi e distruzioni, di snaturamenti e deturpazioni causati non solo dalla guerra, ma anche dagli interventi ricostruttivi del dopoguerra, oltre che da terremoti e disastri naturali. L’operato dell’Osservatorio fu guidato dall’esigenza di una regolamentazione della materia di tutela dei diritti umani e della difesa della cultura, dalla necessità di una divulgazione, applicazione e, ove necessario, di una revisione della legislazione; Fabio fu in più occasioni critico anche sull’operato dell’ONU, che ha in più di una circostanza dimostrato di essere subordinata alle grandi potenze mondiali, e dell’UNESCO che non sempre è stata in grado di gestire le situazioni di crisi in maniera del tutto autonoma e indipendente.

Aggiornamenti e link

Qualche tempo dopo questo articoletto, sull’onda delle vicende dell’ISIS e in occasione dell’uscita di un libro tra il biografico ed il romanzato (‘Oro dentro. Un archeologo in trincea’ di L. Sudiro e G. Rispoli), si è tornati a parlare del Nostro.

F. Maniscalco, “Sarajevo” (da Google Books):