Ripropongo qui, anche a scopo di backup, un articolo che scrissi per la rivista online ArcheoGuida, quindi confluito in Antika, ora Archart, sotto errata attribuzione.
C’è un luogo, in Roma, dove si può assistere ad una contrapposizione che potrebbe definirsi cosmica, nel senso filosofico del termine, dove due opposti sono stati collocati vicini tra loro, quasi a formare un gigantesco yin-yang, l’unità degli antipodi: è il Verano. Da una parte c’è la Città Universitaria, con i suoi ritmi frenetici, le speranze degli studenti, la volontà di riuscire, la sagacia del tentare, l’energia della gioventù; dirimpetto, a contraltare, si trova il Cimitero Monumentale, con i suoi viali tranquilli, il silenzio rotto dal bisbiglio dei frequentatori, il candore delle lapidi, il fascino della memoria, la serena accettazione dell’estremo limite dell’esistenza umana.
A cerniera di due poli tanto contrastanti c’è un’antica basilica, secolare testimone delle trasformazioni colossali avvenute intorno ad essa, muta spettatrice del sorgere di tante promesse e del tramontare di tante speranze, quasi in secondo piano rispetto al caotico fluire poco distante, che la lambisce senza mai, fortunatamente, invaderne ossessivamente gli spazi: è garante di una fascia di transizione dove, davvero in pochi metri, si passa dal rumore del traffico quotidiano al silenzio del riposo eterno. Questo suggestivo tragitto è segnato dalla figura di San Lorenzo, cui la basilica è dedicata.
L’area in cui sorge attualmente la Città Universitaria, prima della sua costruzione
Trasformazioni di un contesto
Se non ci fossero le foto d’archivio degli Anni Trenta a testimoniarlo, sarebbe necessario un arduo sforzo di fantasia per immaginare l’area del Verano aperta campagna, così come lo era gran parte dell’immediato suburbio al di fuori del circuito murario aureliano. Attraverso di essa passava, allora come oggi, la via Tiburtina, diretta verso Tivoli ed oltre, verso l’Adriatico, costeggiata da diverse tombe e mausolei, allo stesso modo in cui, ai nostri giorni, appare la Via Appia: l’area in cui sorge l’Università e l’odierno Cimitero, era in antico un vasto possedimento della famiglia dei Verii, dai quali prese appunto il nome, ager Veranus.
In questo scenario esercitava le proprie funzioni religiose lo spagnolo Laurentius, arcidiacono di Sisto II, papa sotto l’imperatore Valeriano, salito al potere nel 254 d.C. Il compito di Lorenzo era di provvedere, grazie ai proventi ed ai lasciti della comunità cristiana di Roma, al sostentamento dei bisognosi e di quanto chiedessero aiuto: quando nel 258 Valeriano promulgò un editto con il quale condannava alla confisca dei beni e a morte immediata quanti si fossero rifiutati di venerare le divinità ammesse nell’Impero, l’arcidiacono distribuì immediatamente i suoi averi agli assistiti, preparandosi al peggio. Il 6 agosto dello stesso anno, mentre stava celebrando il rito dell’eucarestia nelle catacombe di San Callisto, Sisto II venne trucidato insieme a quattro diaconi; venne intimato a Lorenzo di consegnare il patrimonio di cui era responsabile, entro tre giorni, ma il 10 agosto si presentò dinanzi ai magistrati romani alla testa di un corteo di suoi assistiti, affermando:
“Ecco questi sono i nostri tesori: sono tesori eterni, non vengono mai meno, anzi crescono”. (1)
Venne pertanto condannato al supplizio della graticola. Durante il martirio (2), pronunciò le celebri parole Assum est: versa et manduca, “Questo lato è cotto: gira, e poi mangia”. La matrona romana Ciriaca, poi santificata, raccolse le misere spoglie dell’arcidiacono martirizzato, per seppellirle all’interno di una catacomba preesistente all’interno del terreno di sua proprietà, proprio nell’Ager Veranus. Sin dal suo martirio Lorenzo fu una figura veneratissima: l’imperatore Costantino, volendo conferire adeguata importanza ai luoghi santi di Roma, fece intraprendere grandiosi lavori presso la tomba dell’ormai santo. L’altura tufacea nella quale era conservata la tomba, l’attuale “Pincetto”, venne sbancata al fine di edificarvi immediatamente nei pressi, verso il 330, una prima basilica, definita Maior, anche se più probabilmente la costruzione deve imputarsi a papa Sisto III (432-440), mentre l’imperatore dovette limitarsi ad una cripta o ad una edicola commemorativa (3).
La ricostruzione della struttura è resa problematica dai numerosi interventi avvenuti nella zona: resti di una basilica, verosimilmente da indentificarsi con l’impianto costantiniano, sono venuti alla luce durante lavori nei pressi del muro perimetrale del Cimitero del Verano. Grazie ad essi, è stato ipotizzato un edificio a tre navate, con deambulatorio ed abside, secondo lo schema tipico delle cosiddette basiliche circensi, che dal circo romano mutuano la pianta. Qui vennero seppelliti i papi Zosimo, Sisto III, che abbellì l’altare della chiesa con lastre di porfido, e Ilario, mentre venivano innalzati anche alcuni oratori ed un battistero. Qualche decennio dopo, però, la basilica maggiore versava in pessime condizioni a causa di una frana e di infiltrazioni d’acqua, pertanto papa Pelagio II, sul soglio pontifico dal 578 al 590, decretò la costruzione di una nuova chiesa ex-novo, questa volta proprio in corrispondenza della tomba di San Lorenzo, la cui venerazione nel frattempo aveva attratto un sempre maggiore numero di fedeli.
Venne dunque creata una basilica molto più ariosa ed illuminata, ma più piccola della precedente, e pertanto definita Minor, riutilizzando in maniera massiccia elementi di spoglio di edifici romani: l’ingresso era sul lato opposto rispetto all’attuale, in corrispondenza della fascia all’altezza dell’odierno sepolcro di Pio IX; aveva tre navate, scandite da due file di dodici colonne, alquanto poco illuminata, secondo il gusto bizantino che dominava allora ormai da cinquant’anni nell’architettura romana. Presumibilmente nell’abside trovavano sepoltura anche le salme dei santi Ireneo, Stefano – i resti del quale sembra che furono portati in città da Bisanzio proprio da Pelagio II – e Abbondio, del quale si conservava, nel portico, anche il masso legatogli intorno al collo quando venne scagliato dai carnefici in un pozzo.
L’importanza del complesso accrebbe costantemente: da un documento risalente al periodo di Urbano VIII, al soglio papale dal 1623 al 1644, è possibile apprendere della costruzione del campanile ad opera di Clemente III (1187-1191), del chiostro del convento annesso alla basilica, di una serie di oratori, di un vasto ospizio per i poveri e, soprattutto, della fortificazione atta a proteggere il luogo santo dalle scorrerie barbariche, formando una vera e propria cittadella che prese il nome di Laurenziopoli o Laurentinopoli, nota da una carta del XVI secolo. Di tutto questo è ora visibile soltanto il campanile, il chiostro romanico ed una torre, quasi certamente pertinente all’antica cinta muraria, adoperata come sepoltura dai frati Cappuccini, che gestiscono la chiesa dalla metà del XIX secolo.
Abbellita continuamente a discapito di quella maggiore, la basilica Minor subì una radicale trasformazione con papa Onorio III (1216-1227): mentre la Maior risultava in pratica abbandonata da un secolo, essa venne invece totalmente rinnovata finanche nella pianta. Fu cambiato l’orientamento dell’edificio, capovolgendolo assialmente, venne eliminata l’abside ed ampliato in avanti tutto il corpo della costruzione, sempre mantenendo le tre navate, suddivise da ventidue colonne molto diverse tra loro, avendo utilizzato materiale di reimpiego, ma nulla togliendo all’armonia del luogo; il pavimento venne fatto secondo i canoni dello stile cosmatesco, ed un portico precedeva l’ingresso del nuovo stabile. L’allineamento tra le due parti non fu dei più perfetti, ed ancora oggi, entrando, si può notare una lieve divergenza lungo l’asse ottico, proprio all’altezza della prima citata tomba di Pio IX. Nella basilica, non ancora terminata – il compimento dei lavori avvenne soltanto sotto papa Innocenzo IV, nel 1254 – Onorio III consacrò Pierre de Courtenay, conte d’Auxerre, imperatore di Costantinopoli, episodio celebrato da un dipinto che raffigura il pontefice benedire il sovrano e la moglie, Iole.
Pianta della basilica attuale: è possibile notarne la non assialità centrale (da OLIVANTI 1997).
La basilica conobbe poi alterne vicende: per l’edificazione e la decorazione di Palazzo Farnese, papa Leone X si appropriò dei marmi, dei capitelli e delle colonne poste sul davanti della basilica; nel 1624 il cardinale Buoncompagni fece restaurare la cripta, la cappella di Santa Ciriaca, e ricostruire il soffitto orientale, crollato. Nel 1704 venne invece ideata, da Alessandro Galli, un nuovo grande piazzale semicircolare antistante la chiesa di San Lorenzo, dominata nel centro da una colonna sormontata dallo stemma della famiglia di papa Clemente XI, gli Albani. Con l’occupazione napoleonica, fu decretata la nascita di un cimitero extra-urbano, in quanto espressamente vietato qualsiasi tipo di sepoltura all’interno delle mura cittadine: sorse così, tra il 1811 ed il 1834, il primo nucleo del cimitero del Verano, nelle vicinanze della basilica e destinato ad ampliarsi rapidamente. Nel 1857 si procedette ad una sistemazione monumentale dell’area: Pio IX incaricò Virginio Vespignani di svolgere, tra l’altro, un restauro che restituisse l’aspetto originario alla basilica. Vespignani, infatti, contemporaneamente alla progettazione dell’accesso monumentale al camposanto, restituì l’assetto onoriano alla chiesa, eliminando le sovrapposizioni venutesi a creare nel periodo rinascimentale e barocco; durante tali lavori, vennero alla luce i resti di un oratorio con tre absidi, e numerose lastre tombali databili tra il IV ed il VI secolo. Fu eretta anche la colonna che tuttora si erge al centro del piazzale, con in cima la statua bronzea di San Lorenzo. L’intera operazione di risistemazione ebbe termine soltanto nel 1870.
Nonostante la crescente urbanizzazione dell’area, con la fondamentale accelerazione impartita dalla costruzione della Città Universitaria negli Anni Trenta, il complesso basilicale mantenne la sua atmosfera di quiete e tranquillità, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il 19 luglio del 1943, una serie di bombardamenti alleati, finalizzati a mettere fuori uso il vicino scalo ferroviario, comportò gravissimi danni in tutto il quartiere popolare di San Lorenzo: la basilica da cui esso traeva nome venne pesantemente lesionata, con la distruzione pressoché totale della navata centrale e del portico della parte onoriana, e seri danneggiamenti della parte più antica, quella pelagiana. I restauri durarono fino al 1949, restituendo alla chiesa l’aspetto duecentesco, ed accrescendone il fascino antico, compromesso dalla inevitabile ricostruzione di molte delle sue parti, con l’aggiunta di reperti archeologici rinvenuti nell’area.
La basilica dopo i bombardamenti del 19 luglio 1943
Una piccola parentesi
Una breve digressione si rende, a questo punto, necessaria. Scoprire la storia di un monumento, di un personaggio, di un evento, infatti, comporta l’imbattersi in tutta una serie di correlazioni, per cui spesso, partendo da un punto, si arriva molto lontano da esso, in luoghi all’inizio impensabili: il lasciarsi andare lungo queste vie secondarie ha il suo fascino, l’importante è non perdersi o rimanere invischiati in questa fitta rete di connessioni. Proprio la basilica di San Lorenzo permette una divagazione storica, essendo stata testimone di uno degli innumerevoli eventi tragici che hanno colpito la nostra Penisola durante la Seconda Guerra Mondiale, una ferita ancor oggi non del tutto rimarginata: il bombardamento di Roma avvenuto il 19 luglio 1943.
La Tunisia era da poco stata conquistata, ed il governo fascista iniziò allora a comprendere che da lì a poco la guerra avrebbe interessato direttamente il suolo italiano: per sventare il tremendo pericolo, o quantomeno limitarne i danni, venne deciso di sganciarsi dall’alleanza con il potente Reich nazista, per tentare una pace separata con gli Americani, ricorrendo a delicatissime manovre diplomatiche e tentativi a tastoni, che non sortirono gli effetti voluti. Dal punto di vista degli Alleati, si trattava di adoperare la classica manovra dell’incudine e del martello, attaccando da due fronti contemporaneamente a tenaglia, dopo aver creato le necessarie teste di ponte affinché l’avanzata potesse iniziare. Il fronte africano venne sfondato verso la fine del 1942: l’Italia era ora in prima linea, oltre che l’alleata della Germania di Hitler. Nei primi giorni del mese di luglio del 1943, avvenne lo sbarco alleato nella parte meridionale della Sicilia: per proteggerne l’offensiva, ed al contempo indebolire la resistenza fascista al fine da mandare un forte messaggio a Berlino, si fece ricorso in misura massiccia all’aviazione. Data l’unicità del patrimonio italiano, il Comando si era premurato in precedenza di precisare che né Roma, né Venezia, né Firenze, sarebbero mai state interessate da bombardamenti, preoccupazione smentita, in seguito, da un’affermazione di Eisenhower (4), ma, soprattutto, dalla drammatica realtà dei fatti.
Napoli era già stata (e sarà poi diverse volte) bombardata: ma nella Città Eterna, che pure guardava preoccupata all’avvicinarsi del fronte, continuava con relativa tranquillità la vita di tutti giorni, nessuno credeva possibile un bombardamento, nessuno sapeva di un pericolo del genere.
Lo sa Eisenhower ad Algeri. Lo sanno nella palazzina attorniata dalle palme del Comando NAAF ad Orano, gli ufficiali che si versano il caffè e bevono acqua ghiacciata mentre seguono sulle carte la rotta delle squadriglie che convergono verso Roma dall’Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia e dall’Egitto. Lo sanno anche i settemila uomini in giubbotto di cuoio seduti sui seggiolini delle Fortezze volanti, dei Marauder, dei Mitchell, dei caccia P-38 Lightning in volo sul mare. La sterminata nuvola di ferro e di fuoco sta puntando su Roma nel cielo azzurro, dalla parte del mare e del sole, con le bombe da 500 e 1.000 libbre, gli spezzoni incendiari al fosforo e alla termite-magnesio, i proiettili traccianti, i cannoncini. In cuffia gli uomini sentono Glenn Miller e la tromba di Louis Armstrong o Ella Fitzgerald. E bevono Coca Cola e té aromatizzato. (5)
Alle 11:03 del 19 luglio, iniziò il primo e più terribile incursione aerea mai avvenuta nei cieli di Roma (ne seguiranno più di una cinquantina): finalità era mettere fuori uso innanzitutto le linee ferroviarie, quindi gli aeroporti (che furono colpiti nella seconda ondata). Per circa un’ora, il quartiere di San Lorenzo venne martellato da un’implacabile area bombing, un bombardamento a tappeto che non fece differenze tra obiettivi militari ed abitazioni civili. Qualcosa come oltre quattromila tra bombe e spezzoni incendiari, per un totale di 1.060 tonnellate (mille-e-sessanta tonnellate!) di esplosivo, martoriò la Città Eterna: i danni furono enormi, oltre diecimila case distrutte, quarantamila senzatetto, più di undicimila feriti, poco meno di quattromila morti. San Lorenzo, data la vicinanza dell’importante snodo ferroviario, fu il quartiere più colpito: solo qui si contarono 1500 vittime e circa 4000 feriti, crolli innumerevoli, tra i quali anche la basilica. Fu colpito perfino il cimitero del Verano, sede presunta di depositi di munizioni:
“Sconquassato il Verano, dopo il bombardamento, tornano a galla i morti e sono più di cento”
canta F. De Gregori nella sua “San Lorenzo”, del 1982, a memoria del desolante spettacolo di bare esplose, scheletri esposti, tombe distrutte, come quella della famiglia di Pio XII, che pure aveva esortato gli Alleati a risparmiare la città, inutilmente. Di lì a poco Roma venne dichiarata Città Aperta.
Papa Pacelli, Pio XII, sul piazzale antistante il Verano, benedice, circondato da un’innumerevole folla, le vittime del bombardamento.
Una visita alla Basilica
Vale davvero la pena ritagliarsi un po’ di tempo per visitare la basilica, nonostante i rimaneggiamenti conseguenti al bombardamento. Ad accogliere chi vuole visitare una delle chiese patriarcali di Roma, fino al XIX secolo, o delle Sette Chiese, la cui visita era obbligatoria per chi si recava nella Città Eterna in pellegrinaggio (6), vi è un bel portico adorno di sei colonne: riadattate e poste tra due pilastri, sostengono una trabeazione decorata, prima della distruzione provocata dal bombardamento alleato, con fregi, motivi vegetali, piccole scene a mosaico. Di tutto questo è sopravvissuta una parte della raffigurazione che ritrae la cerimonia di presentazione di Pierre de Courtenay, cui si è già accennato in precedenza, ed un agnello inscritto in un clipeo, emblema sacrificale di Cristo. A completare la composizione, una raffinata cornice floreale.
All’interno del portico, ai lati dell’accesso principale, vi sono due leoni, uno stringente tra le zampe un bimbo, l’altro in atto di sbranare la preda; vi trovano posto, inoltre, alcuni sarcofagi, uno dei quali ha destato molto interesse dal Settecento in poi, per la ricca decorazione delle pareti. Di forma a kline, ossia a forma di letto, con supporti laterali, è ornato con figure di amorini che vendemmiano, grappoli d’uva, pavoni, galli, lepri, capre: di epoca antica, si deve probabilmente ad una scuola artistica influenzata pesantemente dallo stile attico. Secondo una nota storica, fu sepolcro di papa Damaso II, ma la notizia risulta priva di fondamento. Gli affreschi che vivacizzano le pareti del portico risalgono invece alla seconda metà del XIII, e rappresentano, sulla parte frontale, le vicissitudini di San Lorenzo, a sinistra, e Santo Stefano, a destra, costituendo il ciclo preservatosi maggiormente; sulle pareti laterali le immagini risultano molto rovinate e dunque di difficile comprensione, ma sulla destra un miglior stato di conservazione consente di leggervi le gesta di Enrico II durante le guerre contro gli Slavi.
La facciata sovrastante il porticato, ricostruita completamente dopo la distruzione del 1943 in semplici mattoni, presentava in passato affreschi che ritraevano illustre personalità legate alla storia della chiesa.
L’interno della basilica, dopo il bombardamento
All’ingresso nella basilica, l’accoglienza è delegata a due spoglie acquasantiere, recanti lo stemma di Alessandro Farnese, che contribuì finanziariamente all’opera di abbellimento della cappella di Santa Ciriaca e della Confessione; a destra del portale, invece, il sepolcro di Guglielmo Fieschi, nipote di papa Innocenzo IV, costituito da un sarcofago del II secolo d.C., mentre a sinistra c’è il fonte battesimale, pesantemente restaurato, con sulla sommità una piccola statua in bronzo riproducente Giovanni Battista, risalente al tempo di Pio IX; nella parte superiore, infine, un affresco trasposto su tela mostra l’ordinazione di Santo Stefano a diacono.
Si apre così alla vista l’interno della chiesa, scandito da ventidue colonne di spoglio, sormontate da capitelli di tipo ionico, che la dividono in tre navate; una piccola curiosità: il capitello dell’ottava colonna, sul lato destro dando le spalle all’ingresso, reca scolpito nelle volute una rana ed una lucertola, alle quali si attribuisce il valore di firma degli scultori loro creatori, Bàtrakos, che in greco vuol dire “rana”, appunto, e Sauròs, “lucertola” (clicca qui per la galleria fotografica). Essendo schiavi, non potevano firmare esplicitamente le loro opere: potrebbero essere i medesimi autori del Portico di Ottavia (dove sempre una rana ed una lucertola avrebbero medesimo significato).
Non si devono poi dimenticare Sauro e Batraco, di nazionalità spartana, che eressero i templi all’interno del Portico di Ottavia. Molti ritengono che costoro, essendo già molto ricchi, provvedessero a loro spese a finanziare i lavori, perché speravano di essere segnalati in una iscrizione; tale concessione però fu loro negata, ma ottennero lo stesso il loro scopo. Infatti rimangono tuttora scolpite, in spiris columnarum, una lucertola e una rana, con una chiara allusione ai loro nomi.
(Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI, 42)
Spostando lo sguardo dalle colonne al pavimento, si può notare la magnifica composizione opera della scuola cosmatesca: appare qui e lì danneggiato in quanto la bomba che colpì la chiesa cadde proprio in corrispondenza del centro del pavimento. Fu possibile ricostruirne la maggior parte, ma andò purtroppo perduto l’unico esempio allora superstite di mosaico figurato pavimentale cosmatesco, rappresentante due cavalieri contrapposti, su cavalli ingualdrappati, che reggevano aste con stendardo dal doppio cavallo rampante, emblema della famiglia di Onorio III. Quattro triangoli, con grifi e draghi, conservatisi, contornavano e completavano il riquadro.
Il pavimento della basilica, con scritta commemorativa del bombardamento lì dove, in precedenza, vi era il mosaico figurato con cavalieri.
Continuando per la navata, ci si imbatte nei due notevoli amboni anch’essi di fattura cosmatesca: a sinistra, quello riservato alla lettura di testi biblici, sopraelevato da base marmorea e chiusa lateralmente da una lastra di porfido; a destra, l’ambone destinato alla lettura del Vangelo, molto più elaborato. Elevato mediante base di marmo e granito bicromatico, accoglie un leggio sul quale è scolpita un’aquila che afferra la preda, un candelabro ornato da mosaici policromi, con base ornata da due leoni ruggenti, risalente alla seconda metà del Duecento. Intorno all’ambone il pavimento si presenta composto da lastre rettangolari, anziché tonde, poiché probabilmente qui trovava collocazione la schola cantorum, il cui interno era posto sempre più in alto, almeno di un gradino, rispetto al piano della navata: è certo perciò che i due amboni, in origine in altra posizione, debbano poi essere stati spostati, in un dato momento, in avanti.
Arrivati in fondo alla navata, tra le tomba di Gerolamo Oleandri, morto nel 1629, segretario del cardinale Barberini, e quella di Bernardo Guglielmi, imparentato con il suddetto personaggio clericale, vi è una scala, rivestita di marmi, su cui troneggia lo stemma di Pio IX, che permette di accedere alla cappella dedicata a Santa Ciriaca, ed alle sottostanti catacombe. Salendo, invece, le due scalette ai lati della navata centrale, si entra nel presbiterio, costituito dalla basilica di papa Pelagio II (in grigio nella pianta precedente). Ideale cerniera tra la parte pelagiana e quella onoriana è la sottostante, notevolissima cripta del IV secolo d.C., che raccoglie i resti di San Lorenzo, Santo Stefano, San Giustino, quest’ultimo martirizzato all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio, tra il 163 ed il 167; meno suggestiva come congiunzione, ma straordinariamente affascinante, è il cosiddetto “Mosaico dell’Arco Trionfale”, voluto da Pelagio II e risalente quindi al VI secolo d.C.: costituisce l’unica parte sopravvissuta dell’antica decorazione musiva, di stile tipicamente bizantino.
Vi è rappresentato il tema della Maiestas, dove un Cristo benedicente domina la scena, occupando la zona centrale, su di un globo azzurro; a destra San Paolo, Santo Stefano, con un libro aperto, e Sant’Ippolito, che stringe tra le mani la corona del martirio; a sinistra, invece, San Pietro accenna a San Lorenzo, con il Vangelo aperto sulle parole “disperse i superbi, dette ai poveri”; infine papa Pelagio II, rappresentato più naturalisticamente, essendo ancora vivo, e in dimensioni minori, in quanto, ovviamente, non santo, che offre la chiesa, da lui ricostruita, a Cristo, mediante l’intercessione di San Lorenzo. L’intera rappresentazione è chiusa, su entrambi i lati, con le tradizionali immagini di Gerusalemme e Betlemme, dal valore simbolico, sormontate da due finestre a transenna, simili a quelle che si possono osservare ai lati, dalle quali una volta penetrava la luce, essendo questa parete il retro della basilica pelagiana. Lungo l’arco scorre, invece, il distico dedicato al santo titolare, martyrium flammis olim levita subisti jure tuis templis lux beneranda dedit:“Subisti, o levita, il martirio delle fiamme: a buon diritto torna nel tuo tempio la luce veneranda”.
Il “Mosaico dell’Arco Trionfale”
Nell’area del presbiterio, alle cui estremità è possibile vedere banchi duecenteschi chiusi alle estremità da due leoni, vi è l’altare, sovrastato da un magnifico ciborio: quattro eleganti colonne in porfido sorreggono due ordini di colonne più piccole, il più basso, quadrangolare, il più alto, ottagonale, culminanti in un lanternino. Alle spalle, il coro, chiuso da una cattedra episcopale risalente al 1254, di fattura anch’essa cosmatesca, collocata tra due plutei con colonnine tortili, e la cappella sepolcrale di Pio IX, abbellita da mosaici riproducenti eventi legati al suo pontificato, nonostante il papa avesse espresso il desiderio di una sepoltura spoglia. Tutt’intorno, i matronei.
Passando per la sacrestia ottocentesca sulla destra, si giunge invece al chiostro del XII secolo, al quale si può accedere anche dall’esterno, nei pressi del campanile. Si tratta di uno dei più antichi chiostri di Roma, molto sobrio, passato per diverse fasi costruttive, che hanno lasciato un cortile romboidale scandito da finestre con colonnine, loggette con archetti e finestre con cornici cruciformi. Nel porticato che corre lungo il giardino si conservano epigrafi catacombali, sarcofagi di età classica e reperti vari rinvenuti durante gli scavi della basilica costantiniana, dei quali si è parlato all’inizio. Dulcis in fundo, il campanile del XII secolo, probabilmente risalente ai tempi di papa Clemente III, al soglio pontificio dal 1187 al 1191, formato da otto piani, negli ultimi cinque dei quali si aprivano graziose bifore, murate per preservare la statica della struttura. Ha del miracoloso il fatto che non abbia praticamente subito danni durante il bombardamento del 1943.
Abbiamo imparato a conoscere, dunque, una basilica che, nonostante un’asse centrale non allineato, nonostante diverse distruzioni e ricostruzioni, nonostante un bombardamento, mantiene intatta una sommessa eleganza ed un umile potere suggestivo, il tutto incentrato sulla figura di un personaggio che – prescindendo da fede e credo personali – è stato capace, con la titanica fermezza del suo esempio, di coagulare intorno a sé i sentimenti e le emozioni di milioni di persone, attraverso il susseguirsi dei secoli. La forza di tale cumulo storico, di un messaggio comprensibile alle orecchie tanto di un fervente praticante quanto di un ateo studioso, può essere avvertita ancora oggi, sovrastando e silenziando il rumore atono del vicino traffico. Possiamo allora comprendere, a distanza di tredici secoli, il calore che traspare dalle orgogliose parole con cui Pelagio II affida la sua chiesa all’eternità (traduzione di chi scrive):
Rimosse il Signore le tenebre affinché, per la luce creata,
negli anfratti più oscuri penetri così lo splendore.
Lì dove il venerabile corpo aveva un ingresso angusto,
qui ora accoglie la moltitudine uno spazio maggiore:
fu scavata ed appianata una superficie dal monte,
annullando il pericolo di crollo della grande mole.
Tramite il presule Pelagio, il martire Lorenzo decise
che gli venisse costruita una chiesa tanto magnifica che
una fede mirabile tra spade e furori nemici
il Pontefice potesse celebrarla con la sua impresa.
Tu, del quale vediamo crescere gli onori dei Santi,
fa’ che la basilica a te dedicata sia venerata nella pace;
subisti, o levita, il martirio delle fiamme:
a buon diritto torna nel tuo tempio la luce veneranda.
Note
-
- 5) De Simone 2007.
- 6) È possibile indicare con precisione l’anno del primo pellegrinaggio delle Sette Chiese: è il 1559, quando Filippo Neri – sacerdote tanto pio da essere definito “secondo apostolo di Roma”, santificato – volendo contrastare lo strisciante paganesimo insito nei festeggiamenti del carnevale romano, volle spronare la devozione verso i luoghi più venerandi dell’Urbe. Secondo gli storici, però, vi sarebbero elementi per poter ipotizzare che esistesse un itinerario similare già secoli prima di San Filippo, il quale avrebbe solo rivitalizzato un’antica usanza.
Bibliografia
-
- De Simone C., Venti angeli sopra Roma: i bombardamenti aerei sulla Città Eterna, 19 luglio e 13 agosto 1943, Milano, ed. Mursia, 2007
-
- Natale M. T., Via Tiburtina, Roma, Bonsignori Editore, 1993.
-
- Olivanti P., Via Tiburtina, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997.
- Quilici Gigli S., Roma fuori le mura, Roma, Newton Compton, 1986.
Bellissimo articolo gentile Collega, oggi sono andato a visitare i miei parenti defunti al Verano e ne ho approfittato per una pur breve visita alla Basica di S. Lorenzo. Ho potuto precisare molte notizie ormai dimenticate (ho finito la specializzazione ormai alcuni lustri orsono) e apprendere di nuove: tutto molto interessante e documentato, solo un appunto. Le bestiole sul capitello sono probabilmente una suggestione tratta dalle opere originali dei due scalpellini laconi, ma riproposte singolarmente, a distanza di oltre un millennio, dai loro colleghi operanti sotto Cencio Camerario, ovvero papà Onorio III. Infatti quel capitello è romanico come la gran parte della decorazione architettonica della basilica onoriana. Mirabili copie, a partire dalla monumentale, splendida cornice del portico, ma sempre opera medievale.
Grazie della continuazione virtuale della visita e complimenti!
Alessandro Betori